Il “dopo” non è un lieto fine. Ci saranno altri morti, altra fame, altri lunghi mesi di guerra: la vittoria alleata e la resa tedesca arriveranno nel ’45.
I sopravvissuti alla strage vanno incontro a diversi destini. Alcuni restano nascosti con le famiglie, o quel che ne resta, fino all’attivo dei primi soldati inglesi. Mario Marsili, il figlio di Gennì Bibolotti Marsili, rimane più di un anno in ospedale. Enrico Pieri ha perso tutta la famiglia tranne lo zio Duilio, ha undici anni ed è orfano. Cesira Pardini seppellisce nel settembre ’44 le sorelle Anna e Maria, che non sopravvivono alle ferite. Ennio Navari è accolto da parenti, Mauro Pieri – solo e in ospedale perché non può camminare – è ospitato presso la famiglia Corfini e si ricongiunge con il padre dopo diverso tempo. Anche loro trovano rifugio in una grotta, il terrore nei confronti dei tedeschi continua e il fronte è arrivato in Versilia.
I vedovi si risposano e in massima parte lasciano il paese, formando nuove famiglie: in certi casi il ricordo del “fatto” viene ricordato quasi con ossessione, in altri non se ne parla più, se non, a volte, in punto di morte. Però qualcuno lascia testimonianza, perché in qualche modo il peso terribile del ricordo va sfogato: Maddalena Battistini racconta la tragedia del 12 agosto attraverso parole in musica (La Cantata) che i nipoti imparano a memoria. Leopolda Bartolucci raccoglie oggetti, fotografie, scritti: la sua collezione di memorie sarà alla base del futuro Museo di Sant’Anna. Della strage non se ne vuole parlare ma non si vuole dimenticare ed essere dimenticati. Come purtroppo è avvenuto.
Dopo le primissime provvisorie sepolture, tre giorni dopo la strage i corpi della piazza furono riuniti in una grande fossa comune presso la chiesa. Dopo un anno e sette mesi ne fu scavata una seconda, più piccola, per accogliere i resti di chi era morto dentro le case date alle fiamme, resti che erano rimasti lì sotto le macerie.
Leopolda Bartolucci, sopravvissuta, in una testimonianza orale a Toni Rovatti, racconta come arrivarono una trentina di volontari dai paesi vicini e come fosse disperata la situazione nei giorni seguenti l’eccidio:Ad agosto, dopo tre giorni, sangue, grasso, di tutto … Lì era tutto uno sfacelo, te lo immagini con quel caldo? Non si resisteva più di cinque minuti.
Ma non finisce qui: dopo ben quattro anni (1948) il Comune di Stazzema decide, con il paese, di spostare i corpi, perchè la Piazza della Chiesa letteralmente trasuda morte.“Poldina” racconta ancora:
[…] La terra la vedevi tutta crepe, tutta sollevata. Il grasso e il sangue, coi rastrelli che si lavorava i campi, si faceva dei mucchi […]e poi questa roba si sotterrava.
Durante la riesumazione del ’48, del padre di Leopolda Bartolucci, Adolfo, furono ritrovati solo il cappello bruciato e la scarpa da invalido. Oggetti che la figlia ha custodito gelosamente insieme ad altri mille oggetti, appunti, testimonianze, per tutta la vita. Non ha mai voluto pubblicare i suoi “quaderni” di appunti perchè “qualcuno si potrebbe offendere” e i figli ne hanno rispettato la volontà.
Anche Enio Mancini, sopravvissuto a Sennari, ha raccontato del “dopo”:
Il 15 di agosto mio padre radunò i parenti e alcuni amici, in tutto 23 persone. Ci portò a nasconderci in una grotta in fondo al paese. Aveva paura che tornassero i tedeschi per finire il lavoro. Quando la sera il vento di tramontana scendeva, portava l’odore acre della carne bruciata. Per me è l’odore della morte, è la morte.[…] “La mancanza di igiene era opprimente. Eravamo in una condizione pietosa. Pieni di insetti, di pulci, di pidocchi”. […] “Fu la paura, il terrore. Gli adulti si raccomandavano a noi bambini che si stesse zitti, di non farci sentire. Poi qualcuno avvicinandosi si è accorto che non erano tedeschi. Tra cui mio padre, che veniva dalla guerra, pertanto conosceva perfettamente le divise. ‘Sono americani, sono americani!’ gridarono gli adulti. E allora siamo usciti tutti dalla grotta. Era il 21 o 20 settembre del 1944. […] Se nel 1943 eravamo 43 ragazzi nella scuola del paese, nel 1945, alla riapertura, eravamo in 12. Del famoso girotondo di bambini della fotografia, rimase viva una sola, Leopolda Bartolucci […]
Milena Bernabò: […] I genitori erano tutti disperati perché avevino portato via tutte le famiglie e nessuno aveva notizie su quello che poteva esse successo.
[…] E quando è arrivata la notte eravamo terrorizzati dalla paura…
Il secondo giorno, io ero piena di ferite[…] E poi c’avevo le pallottole anche dentro. E sanguinavo da tutte le parti. E allora è arrivato un partigiano, credo. Diceva che era un dottore. […] Poi a un certo punto ha detto “Signora, bisogna che questa ragazza venga portata all’ospedale perché se viene un’infezione” – dice – “può morire”.
Allora i mi’ genitori hanno organizzato un telo, con su de’ bastoni, c’hanno sceso lungo i boschi, c’hanno portato a Valdicastello dove c’era l’ospedale. […]
Dopo pochi giorni, hanno cominciato a dire che c’erano i tedeschi, di nuovo, che si preparavano per far saltare il ponte.
Dopo qualche giorno, infatti, hanno cominciato a dire “Stasera danno fuoco a’ ponti. Saltano i ponti”.
Noi eravamo tutti lì. È venuta la mia mamma, sicchè le ho detto “Guarda che dicono che saltano i ponti, qui così. Come si fa?”. E allora dice “Ti portiam via”… ma c’erano i tedeschi da tutte le parti, un si sapeva come fare. C’hanno messo dè materassi addosso perché chi non si poteva muovere doveva rimanere nel letto. […] Hanno fatto saltare questi ponti. Tutti i vetri, tutti i tegoli addosso. È successo un finimondo! Verso sera, un po’ più tardi, si sono calmate un po’ le cose. Allora sono iniziati a arrivà tutti i feriti, chi aveva una gamba rotta, chi una cosa chi l’altra…
Il giorno dopo son venuti, […] M’hanno preso in collo, sulle spalle e m’hanno portato su. M’hanno portato sotto una grotta dove c’eran tutti i mi’ familiari, tutti i vicini… quelli rimasti, insomma. […] Siamo stati diverso tempo in queste grotte”. [Milena Bernabò]
Mario Marsili, il figlio di Gennì Bibolotti Marsili, morta lanciando uno zoccolo ai nazifascisti per salvarlo, resta più di un anno ricoverato per le ustioni riportate, prima nell’ospedale provvisorio di Valdicastello poi presso le Suore di Marina di Pietrasanta. A raccoglierlo e assisterlo durante la prima terribile notte fu Nella Pieri, che si prese cura di altri piccoli orfani.
Enrico Pieri ha perso tutta la famiglia tranne lo zio Duilio, ha undici anni ed è orfano. Passa ancora un po’ di tempo in Versilia, poi emigra in Svizzera: tornerà in Italia dopo molti anni e oggi è presidente dell’Associazione Martiri di Sant’Anna.
“[…]Ho perso tutta la mia famiglia, sono rimasto solo, perché anche il nonno e la nonna materna, zii, sono stati uccisi. Insomma… m’è rimasto solo uno zio paterno e una zia paterna e uno zio che poi è stato portato in Germania”.
Cesira Pardini seppellisce nel settembre ’44 le sorelle Anna e Maria, che non sopravvivono alle ferite.
Degli altri che non ci sono più resta solo qualche foto e la memoria.
La memoria collettiva e ufficiale dei fatti di Sant’Anna si percepisce alla prima occhiata arrivando alla Chiesa. L’aspetto è quello di una chirurgia plastica riuscita male dove in troppi hanno voluto mettere le mani. Sculture di vario genere si alternano nel tempo fra la chiesa, il sagrato, il monumento ai caduti, come se ogni artista, associazione, gruppo culturale abbia voluto calcare la propria impronta, cancellando quanto resta di ciò che è stato un muto testimone della strage. L’antica tomba della famiglia Moriconi e il suo crocifisso in marmo, sulla quale si sono ammassati tanti cadaveri, sono stati rimossi.
Lì accanto erano state scavate le fosse comuni e niente più di quanto era scolpito su quel vecchio monumento poteva rappresentare la sacralità del luogo. Lo scrittore e giornalista antifascista Filippo Sacchi, nel ’45, ce ne offre una descrizione:
[…]Nel mezzo ci sono un giovane platano e un cippo di marmo annerito, che porta la data del 1880, e un’iscrizione destinata a diventare tragicamente profetica: ‘Per ricordare ai posteri che questo sacro luogo fu tomba dei padri loro. Il terreno che calchi è sacro.’
Molte lapidi delle prime sepolture sono state dismesse, alcune accostate al muro del vecchio cimitero: le iscrizioni sono molto meno soft di quelle nuove collocate dalle istituzioni pubbliche: c’è rabbia, denuncia, orrore in quelle parole fatte scolpire a sangue caldo, troppo dure (e vere) per il clima di pacificazione nazionale che si è voluto in seguito.
Tra queste quella voluta
da Angela Lazzeri per commemorare
la morte di sette familiari, tra cui quattro
nipoti di età compresa tra i 7 e i 12 anni,
in cui si dice che l’eccidio fu compiuto
da “ I BARBARI FIGLI DI ATTILA
CON LE ORDE FASCISTE”; e quella
che ancora commemora il massacro di Coletti di Sotto, nel quale persero la vita
27 persone, assassinate «DALLA BARBARA
SOLDATAGLIA TEDESCA
CON COMPLICITÀ DI RINNEGATI
ITALIANI”. [Marco Piccolino]
Sant’Anna è un cimitero senza sacralità, triste, con i gitanti che fanno merenda o le risate che escono dal bar. La vita qui è finita quel 12 agosto e anche alle pietre è stato negato il rispetto dovuto. Le case delle stragi, in parte sono state ricostruite quando i santannini ancora speravano, dopo la guerra, di poter rimettere su il proprio paese. Alcune di esse sono in vendita, altre, mai più abitate, sono andate del tutto in rovina.
Il bosco che ha quasi inghiottito il paese è più pietoso: fra quel verde silenzioso, negli angoli fra i sassi caduti, è possibile percepire il passato. I più composti sono i visitatori tedeschi che, a occhi bassi e bocca chiusa, guardano e si guardano. Solo in alcuni giorni il paese si affolla per parate, celebrazioni, mostre e quant’altro: Ogni 12 agosto al Sacrario/Ossario sul colle di Cava i superstiti sono sempre meno, mentre abbondano personaggi di varia mediocrità che strumentalizzano gli eventi per mettersi in mostra e dire banalità nei discorsi ufficiali. Non sono più i tempi di Pertini. Tra l’altro, il Presidente della Repubblica, quel giorno, andò via molto arrabbiato…
Da quella lontana traslazione all’Ossario sul Col di Cava sono emersi altri oggetti, che pongono interrogativi e sui quali ancora c’è qualcosa da dire.