Negli anni venti, una poesia scritta da Sara Teasdale. Nel 1950 un racconto tratto da Cronache Marziane, di Ray Bradbury [Waukegan, 22 agosto 1920 – Los Angeles, 5 giugno 2012]. Nel 1984, un cortometraggio di animazione sovietica.
Ad unirli un titolo, There Will Come Soft Rain (Verrà dolce la pioggia), e un denominatore comune: l’idea di una Terra dopo la scomparsa dell’uomo.
Verrà dolce la pioggia [Sara Teasdale, 1920]
“Verrà dolce la pioggia e l’odore del suolo
Le rondini in cerchio e lo stridere in volo
E le rane nei fossi la notte col canto
E i pruni di bosco in tremulo bianco.
Di fuoco piumato pettirossi abbigliati
Fischieranno capricci su bassi steccati.
Nessuno saprà,
Della guerra, nessuno
Avrà il minimo intuito che tutto è compiuto.
Né albero o uccello, nessuno di loro
Avrà un solo pensiero per la fine dell’uomo.
Anche Lei, Primavera, nell’alba nascente
Che noi siamo andati, sarà appena cosciente.”
[Traduzione di Cristina Donati]
Agosto 2026: There will come soft rains [da Cronache Marziane, 1950 – Ray Bradbury]
Scritta nel tono lieve e ironico di Bradbury, questo capitolo di Cronache Marziane è ambientato in un futuro nel quale l’uomo ha concluso il suo viaggio. All’alba del 4 agosto 2026, la città di Allendale in California è stata spazzata via dalla guerra atomica, ma una Casa Meccanica – perfettamente automatizzata – gestisce minuto per minuto le vite di una famiglia scomparsa. Allegre filastrocche annunciano la sveglia del mattino, l’ora del lavoro e della scuola; elettrodomestici meccanici preparano la colazione, leggono poesie (quella di Sara Teasdale) e ricordano le scadenze del giorno. Tuttavia qualcosa manca, e l’autore ce lo mostra accompagnando il lettore di stanza in stanza, nel giardino deserto e dietro le pareti esterne, sulle quali degli antichi occupanti restano soltanto le sagome carbonizzate nel muro. Un paesaggio quindi che sarebbe idilliaco, se non fosse per alcuni particolari che danno vita a una fiaba crudele “in cui gli dei se ne sono andati e i riti della religione continuano, inutili e senza senso”. Spietata nella sua amabilità, questa novella di Bradbury è come ferro nel velluto: il tempo non ha fretta, la data della prima bomba atomica e quella della fine dell’umanità – il 5 agosto – si sfiorano “in un ultimo, titanico, istante”:
“L’alba appare a oriente. Tra le rovine, resta solo un muro. E mentre il sole sorge a illuminare quella distesa di macerie e vapore, da quel muro un’ultima voce ripete, ancora e ancora e ancora: Oggi è il 5 Agosto 2026, oggi è il 5 Agosto 2026, oggi è..”
There will come soft rains : Cortometraggio, 1984 – Uzbekfilm, 1984
http://es.youtube.com/watch?v=tKJ77w6uQCg
Se i versi malinconici della poetessa americana si trasformano in una distopica visione post nucleare nel racconto breve di Cronache Marziane, il cortometraggio dell’Uzbekfilm Studio gioca su toni assai più cupi. La data è cambiata: siamo nell’ultimo giorno dell’anno, subito dopo l’olocausto. Nel buio della Casa Meccanica si accendono le luci rosse di un robot domestico dalla sagoma aguzza e dai movimenti secchi come spari. I suggerimenti gentili degli automi di Bradbury diventano qui ordini scanditi con voce aliena: sveglia e colazione automatizzate non lasciano possibilità di scelta. Dai vetri rotti delle camere da letto appare la tempesta di neve dell’inverno atomico, e accanto alle tute anti radiazioni disposte ordinatamente lungo il muro, i letti futuristici simili a capsule spaziali contengono adulti e bambini ridotti a sagome di cenere: hanno ancora l’orologio al polso e stringono giocattoli nel loro ultimo sonno, prima di essere versati a terra sulle pantofole vuote.
Solo una stanza è risparmiata dall’oscurità: mostra il sole di una giornata primaverile e un vecchio grammofono che suona canzoni anni ’50. Ma tutto scompare al comando del servitore meccanico, la musica si interrompe e lo schermo elettronico si spegne rivelando il buio esterno. Ogni cosa sembra immutabile e immutata, organizzata in un cerimoniale indifferente alla presenza o meno dell’essere umano: le uova continueranno a cadere in eterno nei piatti metallici della colazione, davanti al ricordo di esseri che non ci sono più? No, qualcosa disturba l’equilibrio perfetto della Casa Meccanica: dalla finestra sfondata entra un estraneo, sconosciuto e temibile, incapace di rispondere alla parola d’ordine richiesta. E’una colomba. Dopo un attimo, suonano gli allarmi e scattano le difese, in allerta costante, ma la Casa non è destinata a sopravvivere: si trasforma in un’arma rabbiosa e indifferente all’auto-annientamento e all’entità della causa scatenante. L’ultimo atto del robot impazzito, accecato da lacrime di cavi e metallo fuso, è sfondare il cuore nucleare della dimora ormai distrutta: l’ennesima esplosione atomica che aggiunge rovine alle rovine.
Il libro di Bradbury ha il sapore di Hiroshima, ma qui si avverte il peso della situazione sovietica durante la guerra fredda: nel 1984, il muro di Berlino è ancora in piedi e la Russia si chiama U.R.S.S.
I colori lividi, l’oscurità e il senso di freddo che dominano le immagini costituiscono una percezione allegorica della vita civile allora dominante: un’esistenza militarizzata a spregio di ogni individualità personale, una società nella paura costante di un disastro atomico, una speranza di pace considerata sovversiva.
Se i versi di Sara Teasdale mostrano il trionfo della natura sulle catastrofi insensate dell’uomo, in questo tristissimo cortometraggio anche tale speranza è scomparsa: la possibilità di un mondo incontaminato è morta per sempre, e quello che ne resta è solo il ricordo, riprodotto all’infinito da uno schermo rimasto miracolosamente intatto nella devastazione totale.